Ferrari è sempre stato un convIGNORE INTO nazionalista, attaccato in modo "feroce" alla sua terra: l'Emilia e all'Italia, dimostrando sempre fino alla morte, che vecchi si diventa solo quando i ricordi prendono il posto dei sogni che per Ferrari iniziarono all'età di dieci anni, quando a Modena vide la prima gara automobilistica e lo accompagnarono per tutta la vita, mantenendolo sempre vitale e creativo anche in età avanzata.
Ma perché Enzo Ferrari è diventato Enzo Ferrari, tenendo fede alla promessa fatta da ragazzi all'amico d'infanzia Peppino in una calda serata d'estate?.
Le motivazioni sono da ricercarsi nel suo carattere tutto d'un pezzo, che più di una volta ha fatto tremare illustri personaggi: piloti, manager, responsabili di grandi aziende e di Associazioni legate al mondo dell'automobile, fino ad avere un peso determinate nel "nuovo Patto della Concordia" stipulato nel 1987 che di fatto sostituiva quello del 1981.
Ma anche in questo caso bastò il "ruggito" di una sua creatura, la Formula Cart, nata appositamente dalla penna di Gustav Brunner per lo scopo ben preciso di far credere di "emigrare", nel caso le sue condizioni non fossero state accolte, negli Stati Uniti ed abbandonare definitivamente le gare europee. Resta il dilemma se il progetto non andò in porto per la morte improvvisa di Truman, il capo della Truesport che avrebbe gestito tutta l'operazione "formula cart" o se Enzo Ferrari fece costruire appositamente la vettura per intimorire i responsabili della Federazione, cosa che francamente reputo lontana dal pensiero di Ferrari.
Gli vennero cuciti addosso come una seconda pelle molti aggettivi: duro, inflessibile, agitatore di uomini, Drake, Grande Vecchio e titoli realmente meritati, grazie alla sua caparbietà e genialità: Cavaliere nel 1924, Cavaliere Ufficiale nel 1925, Commendatore nel 1927 e Cavaliere al merito del Lavoro il 21 dicembre 1952; oltre alla laurea Honoris Causa in ingegneria meccanica, conferitagli dall'Università di Bologna il 7 luglio 1960 e la laurea Honoris Causa in Fisica conferitagli dall'Università di Modena il 1 febbraio 1988. Si aggiungono poi un'infinità di altri riconoscimenti italiani ed esteri che hanno portato Ferrari ad essere uno dei personaggi italiani più conosciuti nel Mondo. Poteva fare il cantante lirico o il giornalista sportivo, come più spesso ripetuto da lui stesso, ma finì per fare prima il corridore automobilistico, vincendo diverse gare e poi il fulcro di una realtà che sarebbe divenuta grande e conosciuta in tutto il Mondo. La Ferrari.
Lui, l'Uomo di Maranello che faceva attendere Sovrani e Capi di Stato di tutto il Mondo nelle sue proverbiali "sale d'attesa", accomunati a piloti, che chiamati appositamente alla sua corte, aspettavano per ore l'ingresso al suo cospetto. Lui che fece licenziare dopo mille peripezie un Campione del Mondo come Surtees, motivando il licenziamento per i noti motivi che gli storici ci hanno tramandato, con una frase che racchiude in se tutta una filosofia di vita:" so quello che perdo allontanandolo, non so cosa perderei se restasse ancora con noi"!
La sua abilità nel giostrare gli avvenimenti era unica. Riusciva ad ottenere il meglio da tecnici e piloti, mettendoli in competizione tra loro e a volte creando un clima non proprio disteso, ma sempre per il bene della sua "Scuderia", bene che si materializzava con le vittorie e l'aumento del volume produttivo della sua fabbrica.
Ma il tutto faceva parte del suo carattere, del suo credo. Ferrari era Ferrari. Punto.
Alcuni piloti l'hanno amato, altri si sono sentiti traditi, altri ancora maltrattati. Più di una volta gli hanno rivolto accuse di non essere riconoscente magari dopo una brillante vittoria.
Molti piloti nelle loro memorie hanno descritto Ferrari come un uomo difficile da interpretare. Il suo carisma era palpabile, un vero padrone delle situazioni sia favorevoli che sfavorevoli che ogni giorno gli si presentavano davanti, ma che in ogni circostanza, andasse come andasse, ne traeva sempre qualche beneficio. Pochissime volte si allontanò dal suo feudo: Maranello. Le "trasferte" più lunghe le fece per incontrare Pininfarina in terra neutra, in quel di Tortona e qui gettare le basi per una produzione di serie con il futuro "sarto" di quasi tutta la produzione Ferrari, iniziata nel 1952 e per incontrare Gianni Agnelli a Torino nel 1969.
Amava le sue macchine sopra ogni cosa, affermando in più occasioni che il pilota era una componente della macchina. Amava scommettere su piloti non affermati per portarli alla vittoria e così dimostrare che le sue macchine erano superiori a tutti e il suo fiuto di talent-scout aveva visto giusto ancora una volta.
Ma con i suoi collaboratori come solo lui chiamava gli operai, Ferrari si dimostrò quasi sempre un padre, pronto ad ascoltare i bisogni degli stessi, forte del detto da lui coniato:" l'azienda è composta primo dagli uomini che ci lavorano, poi dai macchinari ed infine dai muri". Analizzando il suo pensiero, risulta molto chiaro il posto ricoperto dai suoi operai e tecnici.
E i suoi collaboratori lo hanno sempre ricambiato con dedizione al lavoro assoluta, perchè lavorare in Ferrari e per Ferrari era motivo di orgoglio. Un orgoglio nazionale.La sua lunga vita è sempre stata piena di fatti poco comprensibili all'osservatore di turno, altalenando soddisfazioni con amari conti da pagare alla vita. Fu così quando perse suo figlio Dino nel 1956, deluso dalla vita pronunciò queste parole:" mi ha deluso l'impotenza a difendere la vita di mio figlio, che mi è stato strappato, giorno dopo giorno, per 24 anni"; o quando qualche suo pilota moriva in gara. Venne accusato dopo l'incidente di Portago alla Mille Miglia del 1957, incidente di cui solo dopo quattro anni (26 luglio 1961) venne scagionato per non aver commesso il fatto, discolpando lui e le sue rosse macchine da una strage non voluta. L'Osservatore Romano nel 1958 lo definì:"un Saturno che divora i propri figli" dopo la morte di Luigi Musso avvenuta a Reims il 6 luglio dello stesso anno.
Tutti questi lutti lo provarono seriamente, toccando i suoi sentimenti al punto che: " al di là dei valori affettivi quando muore un pilota, ritengo un mio imperativo dovere, cercare di sapere se l'incidente è stato causato da ragioni tecniche. Sento profondamente la responsabilità che mi assumo quando affido la mia macchina a un pilota e la considero sicura, nei limiti della perfettibilità umana".
Fu così quando battè per la prima volta a Silverstone nel 1951 l'Alfa Romeo o quando prima ancora, nel 1947, Sommer portò alla vittoria una sua creatura al Parco del Valentino nel Gran Premio Città di Torino; parco che quasi trent'anni prima lo vide piangere, in mezzo alla neve, reduce sconsolato e senza lavoro.
Dopo la morte di Dino, non frequentò più gli autodromi se non quello di Modena e di Monza (quest'ultimo fino alla fine degli anni '60) e l'unico suo contatto con le gare fu la televisione e il telefono a cui i Direttori Sportivi di turno, si dovevano attaccare per riferire ogni minimo particolare della gara: anche a migliaia di chilometri di distanza l'unico vero regista era sempre lui.
Tutte situazioni che temprano un uomo fino a farlo diventare coriaceo e refrattario ai fatti della vita.
Ma lui ha sempre tirato diritto per la sua strada, sicuro dei suoi sentimenti per l'automobile e per la sua azienda. Amava il suo lavoro dedicandone anche le ferie passate regolarmente a Maranello, fino a far sorgere qualche incertezza nel tecnico o dirigente che "osava" chiederne un periodo.
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Il testo non ha potuto essere riprodotto in maniera integrale causa numero elevato di caratteri. Per chi volesse approfondire e continuare la lettura : http://www.modelfoxbrianza.it/EnzoFerrari.htm
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